Non è saggio trascurare il messaggio che viene dall’andamento dei prezzi, anche se esso contrasta con la tua opinione del mercato e con la tua valutazione della domanda e dell’offerta (Jesse Livermore)
Nel glossario di questo sito si puo’ leggere:
BENCHMARK Termine inglese traducibile in “punto di riferimento”. Si tratta di un parametro basilare per valutare l’andamento di un fondo di investimento. Per esempio, un fondo azionario che investe in Italia potrebbe avere come benchmark l’indice della borsa italiana, mentre un fondo che investe in azioni americane l’indice Dow Jones. L’andamento del fondo viene cosi’ confrontato col mercato di riferimento. Siccome esistono fondi indicizzati con bassi costi di gestione , se un fondo di investimento (che ha commissioni piu’ elevate) non “batte” il benchmark , significa che la gestione non apporta valore aggiunto. Meglio utilizzare un semplice ETF.
Su Plus24, allegato al Sole 24 Ore del 3 gennaio 2015, si analizza il rendimento dei fondi comuni nel 2014 e ovviamente si confronta con un benchmark. I risultati appaiono sconfortanti : solo il 19% batte il benchmark. Ma un analisi piu’ approfondita mostra che, al di la’ dei risultati, e’ la metodologia adottata che non convince. Infatti ogni gestore (per i fondi di diritto italiano), pur obbligato a scegliersi un benchmark, e’ libero di individuare il parametro che ritiene piu’ opportuno. Come se non bastasse, i fondi flessibili (nei quali il gestore ha amplissimo margine di manovra nella scelta degli investimenti) e i fondi domiciliati all’estero sono esentati dall’adozione del benchmark.
Risultato : “Solo nel 2014 su un totale di 143 nuovi fondi di diritto italiano, 100 sono stati classificati come flessibili” !
Altro paradosso evidenziato dal settimanale: la scelta “autonoma” del benchmark comporta che un fondo con una performance assoluta migliore, ma che ha scelto un parametro di riferimento piu’ competitivo, risulta peggiore (attenzione nella stessa categoria, OBBLIGAZIONARI INTERNAZIONALI) di un altro che ha reso il 9% in meno…
In questo modo per un risparmiatore diventa molto difficile valutare i risultati della gestione !
Quando un amico o conoscente mi segnala i buoni risultati di un qualche fondo di investimento in suo possesso (frequentemente uno, tra i tanti che gli sono stati venduti), in genere svolgo una minima analisi sull’andamento storico in confronto con un appropriato benchmark. I buoni risultati dipendono quasi sempre dall’andamento del mercato sottostante, mentre si riscontra la sostanziale indicizzazione del fondo: in genere investire in un etf sarebbe stata un alternativa migliore. Questo accade per svariati motivi: innanzitutto i fondi sono sottoposti a una serie di costi e commissioni (di gestione, di entrata, di uscita, di performance…); secondo, il gestore deve mantenere sempre una quota non investita, e quindi non redditizia, per fare fronte ai riscatti; terzo (e piu’ importante), i gestori tendono ad essere indicizzati , nel bene e nel male, perche’ cosi’ non potranno essere biasimati di aver fatto molto peggio del mercato.
Siccome la maggior parte dei fondi comuni sono quindi sostanzialmente indicizzati, e’ ovvio che le commissioni di gestione, piu’ alte, li rendono non competitivi rispetto agli ETF, ma purtroppo la questione e’ piu’ grave. Tale perdita di efficienza (che puo’ arrivare comunque a 2 o 3 punti percentuali annui) ha un costo inferiore rispetto a quello causato da un’ errata asset allocation, vale a dire aver scelto obbligazioni anziche’ azioni, oppure la Cina anziche’ l’India. Se un fondo azionario investe in Cina e perde il 30 % contro il -27 dell’indice, il difetto non e’, o meglio, non e’ solo, il -3% di differenza generato dalle commissioni, ma il fatto che non era il momento di investire in Cina (quindi e’ una questione di asset allocation, ovvero di scelta della tipologia di investimento, piu’ che dello strumento specifico per investire: se il fondo avesse fatto -20%, battendo il benchmark, la situazione sarebbe cambiata di poco). La responsabilita’ non dipende dal singolo gestore, che ha vincoli stringenti: il manager di un fondo azionario e’ costretto a detenere azioni, sia che il mercato salga, sia che il mercato scenda, trattandosi appunto di un fondo che “deve” detenere azioni, anche se non sarebbe il momento…
L’alternativa che sembrava potenzialmente innovativa era quella dei fondi flessibili, nei quali il gestore e’ libero di muoversi fra tutte le diverse tipologie di investimento, giostrando dinamicamente tra la componente azionaria, obbligazionaria e di liquidita’ (e volendo, anche su valute e materie prime). Su questo argomento sto svolgendo una ricerca personale, perche’ mi pare argomento di grande interesse. Le prime conclusioni sono pero’ insoddisfacenti: anche in questo caso pochissime “mosche bianche” battono un benchmark banale e statico, composto da 50% azionario mondiale e 50% obbligazionario mondiale.
Cio’ significa che se un investitore, negli ultimi anni, avesse comprato due etf, investendoci in ciascuno la meta’ del suo capitale, avrebbe fatto meglio della maggior parte dei gestori professionali di fondi flessibili !
In ultima analisi le carenze risiedono nelle modalita’ di gestione del portafoglio detenuto dal singolo, indotta dal macroscopico conflitto di interessi che caratterizza il settore degli investimenti finanziari: pochissime persone sono seguite da consulenti indipendenti, ma sono “consigliate”, nella maggior parte dei casi, da soggetti che hanno interessi contrapposti a quelli del cliente (si veda il collocamento di obbligazioni bancarie) oppure guadagnano in funzione della composizione del portafoglio stesso (ove le commissioni incassate dipendono dalla tipologia degli investimenti presenti: le polizze sono ambitissime, i fondi azionari “rendono” piu’ degli obbligazionari, gli etf quasi nulla …)
D’altro canto le “performance” dei gestori professionali appaiono, nella maggior parte dei casi, molto deludenti.