I fondi comuni d’investimento

Gli investimenti sono come i funghi: uno deve prendere solo quelli che conosce (Lucio Lanza)

 Tra i   maggiori critici dei fondi di investimento si annovera certamente  il Prof. Beppe  Scienza; una persona  che i conti li sa fare, essendo docente universitario di matematica finanziaria. Egli sostiene, peraltro con  puntigliosa  documentazione, che   i rendimenti dei fondi comuni sono, nella maggior parte dei casi, inferiori rispetto alle tradizionali forme di investimento diretto, quali titoli di stato (Bot, Btp, Cct) o azioni. In effetti, se mettiamo a confronto le performance di chi ha investito direttamente in azioni o obbligazioni e chi ha optato per il “ risparmio gestito”, le differenze sono corpose. Dal 1998 a fine 2008 i  fondi comuni hanno  perso in termini di potere d’acquisto quasi il 20%, chiudendo praticamente invariati  come valore  nominale.[1]

Invece i  “vecchi” strumenti finanziari (Bot, Btp, Cct, Buoni postali) hanno coperto dall’inflazione e, nel caso di Buoni postali e Btp, hanno pure conseguito un significativo rendimento reale (fra il 12,2 e il 16,5%). D’altra parte basta dare un’ occhiata ai dati sulla composizione della ricchezza degli italiani per verificare il “saccheggio” che è stato fatto dal sistema bancario e finanziario nel periodo 1985-2008.[2] Fino a buona parte degli anni ’80 erano i titoli di stato le attività finanziarie maggiormente detenute dalle famiglie italiane. Un investimento relativamente sicuro, con  costi ridotti per il risparmiatore. Ma anche, specularmente,  con poche commissioni per il  sistema bancario.

La nascita dei fondi comuni, nel 1984, ha segnato l’inizio di un percorso per cui  milioni di risparmiatori  hanno abbandonato  i titoli di stato per passare al risparmio gestito,[3] con la promessa di rendimenti migliori e una gestione più professionale (e lautamente remunerata).  Al contrario, tale ricchezza e’ stata falcidiata sistematicamente dalle  commissioni di gestione.[4]

Nel 1995 i titoli pubblici erano ancora l’investimento finanziario maggiormente in voga  (il  21% della ricchezza netta delle famiglie italiane),  mentre i fondi comuni  non arrivavano al 4%. Solo 4 anni dopo i titoli pubblici erano scesi al 6% e i fondi saliti al  17%.  Gli ultimi dati   confermano che  lo switch orchestrato da banche e reti ha  portato i titoli pubblici a valere solo il 5,4% della ricchezza degli italiani, i fondi il 4,9%, le obbligazioni bancarie il 12%.[5]
A beneficiare di questo “travaso” di ricchezza naturalmente le banche (detentrici anche nel sistema italiano della maggior parte delle società di gestione dei fondi) e tutti i soggetti finanziari che hanno fruito di questo enorme “pasto gratis”.

Beppe Scienza fa un calcolo sull’ammontare di  questa gigantesca “tosatura”:  affidare i soldi a banche e assicurazioni, credere alla favoletta del risparmio gestito, ovvero di avere, anche con poche migliaia di euro di investimento, una gestione più professionale del risparmio e’ costato ai risparmiatori italiani  20 miliardi di euro ogni anno! [6]

Un taglieggiamento della clientela che inghiotte mediamente un 2% all’anno del patrimonio finanziario degli italiani in termini di maggiori costi “parassitari” e minori rendimenti. Qualcosa che è una cifra colossale in confronto ai crac obbligazionari avvenuti nel 2001-2003 e per i quali si sono spesi fiumi d’inchiostro, ovvero i default di obbligazioni come quelle dell’Argentina, Parmalat, Cirio e altre insolvenze minori (Giacomelli, Cerruti..), la cui stima complessiva ammonta 13,5 miliardi. “A questo punto anche i crac nel 2008 di Lehman Brothers e delle banche islandesi, non appaiono come le vicende piu gravi per i risparmiatori italiani. Hanno arrecato perdite valutabili nell’ordine dei 5 miliardi de euro, pari a quello che fondi, gestioni e polizze divorano in un solo trimestre!”[7]

Tutto cio’ e’ indubbiamente  vero, ma occorre integrarlo con alcune osservazioni:

a)     Se un fondo azionario investe in Cina e perde  il  30 % contro il – 27 dell’indice, il problema non e’ il -3% di differenza, ma il fatto che  non era il momento di investire in Cina  (quindi e’ una questione di asset allocation, ovvero di scelta della tipologia di investimento, piu’ che dello strumento specifico per investire ). Siccome la maggior parte dei fondi comuni sono sostanzialmente indicizzati, e’ ovvio che le commissioni di gestione  piu’ alte non li rendono competitivi rispetto agli  ETF, ma , la perdita di efficienza (che puo’ arrivare comunque a 2 – 3 punti percentuali annui )e’ molto inferiore rispetto a  un’ errata asset allocation, vale a dire aver scelto obbligazioni anziche’ azioni, oppure la  Cina anziche’ l’India.

b)     I  fondi  obbligazionari “stravolgono” le caratteristiche    delle singole obbligazioni,  che  vengono rimpiazzate dal gestore a mano a mano che scadono. Se compro obbligazioni a scadenza avro’ 100 (salvo default), comprando fondi o etf, questi non hanno scadenza, e quindi tramonta la certezza di ottenere 100. Mentre un etf azionario ha una natura intrinseca analoga alle singole azioni, cosi’ non e’ per l’etf obbligazionario, che trasforma a durata illimitata un prodotto che per sua natura ha  una ben definita  scadenza. [8]

c)     Sui fondi gravano delle commissioni piu’ alte che per gli ETF. Finche’ le borse spingono al 10/15 % e piu’, c’e’ margine per soddisfare il cliente e pagarsi una buona  commissione. I clienti non sono normalmente in grado di  analizzare le prestazioni e discernere la qualita’ della gestione, che 9 su 10 e’ indicizzata. Il gioco salta quando le borse scendono o vanno in pari.

d)     Ovviamente i promotori tendono a spingere gli azionari che fanno guadagnare commissioni piu’ alte, grazie anche al mantra che “le borse nel lungo periodo… “

e)     Esistono ottimi  fondi (di tipo bilanciato o flessibile) che hanno dato e probabilmente continueranno a dare buoni rendimenti in differenti fasi dei mercati. Ma, se non avete la fortuna che siano proprio quelli distribuiti dalla vostra banca, difficilmente si troveranno nel vostro portafoglio !

  



[1] Cito da Beppe Scienza, Il risparmio tradito, Edizioni Libreria Cortina , Torino, 2009.

[2] Per esempio Banca d’Italia, La ricchezza delle famiglie italiane 2008, in “Supplementi al Bollettino Statistico”, numero 67 – 16 dicembre 2009

[3] In realta’ spesso i titoli di Stato rientrano nella composizione dei fondi monetari o obbligazionari acquistati dallo stesso risparmiatore, che viene cosi’ colpito da una doppia commissione.

[4] Ormai si sta perdendo l’abitudine di commissioni di ingresso e di uscita dai fondi, ma negli anni Ottanta balzelli del 3, 4 , 5 % erano comuni.

[5] Le banche, durante  la crisi, hanno fatto disinvestire dai fondi per sottoscrivere le proprie obbligazioni. Sostanzialmente si ripete il meccanismo dei fondi comuni che investono in  titoli pubblici, con doppia commissione  per la banca.

[6] op. cit. p.12

[7] op. cit. p.13

[8] Compresi i fondi o etf di obbligazioni inflation linked.