Le previsioni finanziarie

Produciamo stime sul prezzo del petrolio nei prossimi trent’anni, senza renderci conto che non siamo in grado di fare previsioni neanche per la prossima estate (Nassim Nicholas Taleb)

 Per consuetudine   agli operatori finanziari vengono chieste previsioni sull’andamento dei  mercati e dei singoli strumenti (azioni, obbligazioni, materie prime, ecc). La maggior parte, per non dire la quasi totalita’, si presta al gioco e sforna numeri su numeri. Quindi  le riviste, le trasmissioni, i siti internet sono colmi di previsioni su dove andranno gli indici e azioni, in pratica di scommesse sul futuro.

In un mondo di scommettitori, ovviamente, qualcuno che vince la scommessa c’è sempre, e ad alcuni  può apparire come un grande guru, ma non ha chi ha dimestichezza col calcolo delle probabilita’.  Ricordo  Abby Cohen, analista famosa per aver previsto il bull market degli anni ’90, da allora e’ diventata una “rialzista permanente”, fallendo la previsione del ribasso dei primi anni del 2000 e la crisi sub prime: in una dichiarazione alla CNBC nel marzo 2008 stimo’ l’indice SP500 a 1550 per la fine di quell’anno…

Ma a parte il “tirare a indovinare se sale o scende”, che comunque garantisce il 50% di probabilita’, con che metodologia si puo’ provare a ipotizzare l’andamento  futuro dei mercati?

Gli analisti fondamentali prevedono, o cercano di prevedere,  il futuro andamento delle azioni e dei mercati sulla base delle stime degli  utili aziendali.

In pratica questi  analisti effettuano   proiezioni – più o meno aggiustate – basate sui  dati storici di bilancio (fatturato, costi, ecc.). Purtroppo  l’economia non si muove linearmente, ma per cicli:  identificare tali cicli e soprattutto i punti di inversione del ciclo  e’ attivita’ oltremodo complessa.

Fare previsioni puntuali sui punti di svolta dei cicli dei profitti, e sulla loro profondità, richiede complessi modelli econometrici, comunque fallibili.[1]

Inoltre, proprio in corrispondenza dei punti di svolta nel ciclo dei profitti si verificano più frequentemente reticenze sui bilanci societari o sulle aspettative , e queste reticenze da una parte, depistano  gli analisti in buona fede, dall’altra determinano quella successione di inaspettati profit warning  che offuscano ulteriormente  l ‘attendibilita’ complessiva.

Per queste ragioni, ciclicamente, si rinnova lo spettacolo di mercati azionari che iniziano a franare e di analisti, gestori, strategist, ecc. che, incapaci di prevedere il punto di inversione  nel ciclo dei profitti, vi vedono solo opportunità di accumulazione. Di qui la classica “media al ribasso”,  con conseguente accumulo di posizioni in  perdita crescente.

Io ritengo che l’andamento dei mercati dipenda dalle persone, e poiche’ le persone sono piu’ influenzate dai sentimenti che dalla ragione, l’avidita’ e la paura, l’ottimismo  e il pessimismo,  (che diventano euforia e  panico),  trascinano i prezzi molto al di sopra (o al disotto) del presunto valore intrinseco delle aziende.  Inoltre connaturato all’essere umano e’ il comportamento imitativo, in inglese “herding”: ciascuno compra (o vende) perche tutti stanno comprando (o vendendo); questo accade perche’ gli investitori sono influenzati dall’emotivita’ , ma anche perche’  larga parte dei capitali mondiali sono controllati da gestori di fondi che non possono essere biasimati se fanno quello che fanno gli altri…

Esiste  certamente correlazione tra borse ed economie; i momenti di svolta in genere arrivano prima o in stretta coincidenza con i punti svolte dei cicli economici: il crollo finanziario 2008/09 ha visto infatti una forte caduta di tutte le componenti economiche (produzione, occupazione,ecc.), ma personalmente ritengo difficile prevedere in anticipo questi momenti.

Un esempio autorevole:  la relazione tenuta dall’allora  vicedirettore di Bankitalia  Ignazio Visco, agli allievi del  master in economia alla Sapienza.  Siamo nel marzo del 2009, quando la crisi era ormai deflagrata. Banca d’ Italia  sottostimava ancora la caduta del pil italiano di tre punti percentuali (circa -2% a fronte di un consuntivo dell’anno a -5%). [2]

Io ritengo che per operare sui mercati occorra sempre prestare la massima attenzione all’evoluzione degli eventi, senza pregiudizi , ma senza neanche farsi condizionare dalla quotidianita’ . Ricordo ancora la saggia risposta datami da un anziano esperto di borsa, quando ci trovammo a discutere  se una certa azione non fosse palesemente sopravvalutata : “e chi lo sa? Il mercato puo’ portarla dove vuole,  tu devi solo decidere fin dove seguirla…”   E’ evidente che il ragionamento vale sia al rialzo  che al ribasso.

Il  market timing

C’e ovviamente un forte conflitto di interessi che spinge a favore della strategia di portafoglio “buy & hold”. Altrettanto vero è che il market timing è un’operazione  difficile. E che a fare cose difficili si rischia di sbagliare.

Spesso si sostiene che “il tempo speso a definire correttamente il profilo di rischio, e il portafoglio che ne consegue, e’ molto piu’ proficuo di quello destinato a selezionare i singoli titoli”, e che “e’ l’asset allocation l’attivita’ che determina gran parte del rendimento finale di un portafoglio di lungo periodo, non la selezione dei titoli (stock picking), o la scelta del momento in cui entrare e uscire nelle singole asset class (market timing)”.[3]  A sostegno della tesi vengono usate  sostanzialmente due argomentazioni:

una empirica che  fa riferimento ad indagini statistiche, basate prevalentemente sul mercato americano. Qui credo che la risposta sia analoga agli studi sull’equity premium: gli Usa sono un mercato particolare, un mercato che e ‘ risultato “vincente”, in cui le azioni, specialmente dal 1982 al 2000, hanno sovraperformato in maniera eccezionale,  creando un trend positivo di lungo termine; a mio avviso, i dati non sono generalizzabili.

una metodologica, che si basa sulla constatazione che le giornate con eccezionali rivalutazioni sono solo una piccola percentuale  sul totale di quelle che rappresentano il rialzo totale di un mercato.  Non cogliendo questi pochi giorni, si mancherebbe gran parte del rialzo complessivo. Poiché, facendo market timing, sarebbe facile mancare proprio questi giorni in cui si concentra il grosso del rialzo, il market timing sarebbe causa di sottoperformance rispetto agli indici di borsa. A mio avviso il ragionamento non coglie l’aspetto che  i singoli giorni di maggior rivalutazione degli indici non sono distribuiti uniformemente nel tempo, ma normalmente sono concentrati in particolari periodi; inoltre, i giorni con eccezionale rialzo sono normalmente seguiti da giorni con cospicue  perdite;  se è vero che mancare i giorni migliori può causare un grave danno nelle performance complessive, ciò rimane vero solo se si evitano anche i giorni successivi, con relative grosse  perdite. In realta’, quello che conta non e’ risultato del singolo giorno, ma i risultati di periodo.

E durante un certo periodo, i giorni di rialzo e di ribasso si compensano, ma rimane una “prevalenza” di fondo,  il trend, che caratterizza  il ciclo specifico. I mercati si muovono secondo trend e questi trend  sono, almeno parzialmente, “intercettabili”, di qui l’importanza di un approccio flessibile (market timing)[4]. Un market timing gestito con tecniche  quantitative, rappresenti una soluzione realistica al problema dell’individuazione  dei trend  di borsa.

In tal modo  la formulazione   dell’ asset allocation  non viene  lasciata al giudizio discrezionale dell’uomo, ovviando a tutte quelle debolezze cosi’ acutamente indagate dalla finanza comportamentale. Il nostro cervello e’ troppo orientato ad estrapolare il futuro dal recente passato, troppo influenzabile da fattori emotivi,  per poter prendere efficacemente la decisione discontinua di modificare radicalmente l‘asset allocation.

In nostro aiuto interviene l’approccio empirico, la  constatazione che i mercati azionari normalmente si muovono lungo trend che possono essere, sia pur tentativamente , intercettati. Ma solo da coloro – i trend follower – che ritengono che l’unica cosa sensata da fare sia assecondare i mercati e non tentare di anticiparli.

Concludo con le parole di Martin J. Pring:

“Vi e’ la costante tentazione di interpretare ogni possibile svolta del mercato azionario. Questa illusoria credenza si conclude inevitabilmente con un insuccesso. L’analisi deve essere concentrata sull’identificazione dei punti di svolta principali piuttosto che sulla previsione della durata di un movimento, dato che non e’ conosciuta alcuna formula sulla quale possano essere basate coerenti e accurate previsioni di questo tipo.” [5]

[1] Per esempio le stime OCSE o Bankitalia.

[2] Ironicamente, nell’ambito di una lezione su “La crisi finanziaria e le previsioni degli economisti”, incentrata sul fallimento dell’analisi economica a prevedere la caduta del PIL.

[3] Marco Liera su Plus del 26 luglio 2008 e in “Capire la borsa”, Il Sole 24 ore, 2009

[4] Peter Stanyer: ”All’inizio del XX secolo, le azioni delle societa’ ferroviarie rappresentavano il 63% del mercato azionario statunitense, mentre un secolo dopo si attestano allo 0,2%. Russia , India e Austria-Ungheria rappresentavano insieme il 25% del mercato azionario mondiale e meno dell’1% a un solo secolo di distanza. La portata di tali cambiamenti costituisce una sfida estrema per chiunque suggerisca che gli investitori debbano accettare passivamente qualsiasi cambiamento nel mercato. Il recente rialzo e il conseguente declino dei titoli tecnologici, e prima ancora del Giappone negli indici di mercato, suggeriscono la stessa cosa. Su periodi lunghi un approccio da “pilota automatico” per investire sui titoli azionari, interni o internazionali, non risulta affatto credibile. E’ infatti essenziale che gli investitori sappiano rispondere ai cambiamenti strutturali, ai rischi e alle opportunita’ che il mercato offre. “

[5] Pring, Analisi tecnica dei mercati finanziari, Mc Graw Hill, 1991