Nelle decisioni d’affari, in particolare per quelle che riguardano gli investimenti, l’emotivita’ gioca un ruolo fondamentale, e a volte ha la meglio sulla ragione. (Jacob Burak)
E’ molto importante comprendere il ruolo che la psicologia gioca negli investimenti, dal momento che i mercati sono fatti di uomini e non di teorie. I prezzi dei titoli non sono solo numeri che definiscono, come un perito delle assicurazioni, il valore delle societa’. Al contrario, “quello che viene registrato nelle fluttuazioni di mercato non sono gli eventi di per se stessi, ma le reazioni umane a tali eventi” (B.Baruch). In altre parole il mercato “e’ la gente, la gente che cerca di leggere il futuro”.
Nei mercati finanziari quindi , piuttosto che “perizie sull’esistente”, si effettuano invece, “scommesse sul futuro”; si registra lo scontro tra ottimisti e pessimisti, predomina l’incertezza: uno scenario perfetto per comportamenti non razionali.
Quando si approcciano i mercati per la prima volta, si e’ portati a ipotizzare l’importanza di acquisire la “tecnica” , quindi a pensare che la chiave interpretativa sia esterna a noi. Col passare del tempo si tende dare sempre piu’ importanza alla psicologia, fino a che non si perviene alla convinzione che sui mercati finanziari la chiave per vincere e ‘ essenzialmente interna a noi. Dei tre principi di gestione citati precedentemente, nell’articolo su “Questioni di metodo”, e mutuati da Warren Buffett (metodo – disciplina – pazienza), a ben vedere, due sono prevalentemente psicologici e non tecnici: solo il metodo e’ una questione tecnica; disciplina e pazienza sono caratteristiche mentali. Per comprendere il comportamento degli investitori bisogna quindi studiare piu’ la corteccia emotiva che l’astratta razionalita’. D’altra parte Isaac Newton, come noto, perse moltissimi soldi in borsa![1]
Impulsivita’ e “rumore”
Come sostiene Jacob Burak,[2] l’abilita’ dei nostri antenati a identificare velocemente un pericolo spesso li salvava dalla morte; invece negli affari avviene il contrario: il mercato ci penalizza quando agiamo in maniera impulsiva. Nel contempo l’aumento della volatilita’ e l’eccesso di informazioni inducono ad agire, incrementando la compravendita di titoli.
Se si osservano i monitor con le quotazioni di borsa si vedono i prezzi ballare su e giu’, compulsivamente. Quel che consegue, su intervalli temporali brevi, e’ l’estrema variabilita’ del nostro portafoglio. Ma il nostro apparato psichico non e’ progettato per tutto questo. Sulla pressione emotiva dell’ultima notizia letta, o ascoltata, siamo portati a rivedere il nostro portafoglio.
Inoltre l ‘ultima notizia potrebbe essere abbastanza “farlocca” . Ricordo che nel giro di un anno, nel 2008, il petrolio e’ salito da 70 a 140 dollari e, quando un’ analisi di un importante banca ha individuato un prezzo obiettivo a 200 dollari, ha iniziato a scendere. Recentemente l’oro si e’ comportato in maniera analoga.
Per non parlare di un documento che un amico “private banker” , al quale avevo manifestato il mio scetticismo sul futuro delle borse, mi consegno’ all’inizio del 2008: era di una societa’ americana tra le piu’ grandi del mondo che amministrava miliardi di dollari (gia’ un segnale di potenziale conflitto di interesse: personalmente, se mi serve un parere su una questione tecnica, mi rivolgo a un perito indipendente e non a un tecnico della controparte).
Il report recitava: “Il toro continuera’ a correre a Wall Street, il rapporto prezzo/utili e’ inferiore al 2002, e negli anni delle elezioni presidenziali la borsa e’ cresciuta in media del 8% , di oltre il 10% se viene eletto un democratico”. Dopo pochi mesi, invece, sarebbe deflagrata la peggior crisi del dopoguerra.
Il complesso del “prezzo di acquisto”
Molti risparmiatori che hanno comprato azioni o fondi che perdono ritengono piu’ saggio chi li consiglia di mantenere o mediare, piuttosto di chi suggerisce di vendere o alleggerire le posizioni. Pesa ovviamente il dover ammettere l’errore. E’ una questione studiata dalla finanza comportamentale. Quindi da psicologi che studiano la finanza.
Il problema infatti non e’ tecnico, ma psicologico: tali risparmiatori sono affetti da “complesso del prezzo di acquisto”.
Questo concetto del prezzo di acquisto, o di carico, influenza le scelte di tantissimi risparmiatori che ritengono che il prezzo pagato per un’azione o un’obbligazione, o anche un fondo comune, sia importante per decidere che cosa fare: se venderla, tenerla o comprarne altre. Se non si è convinti delle prospettive di un titolo, o di un fondo, poca conta insomma il nostro prezzo di carico; se si ritiene che esistano opportunità con prospettive migliori converrà comunque venderlo, che ci si guadagni o che ci si perda. [3]
Molti investitori non amano ammettere i propri errori. Se hanno comprato delle azioni o dei fondi sbagliati ritengono più saggio chi li consiglia di tenere o addirittura di “mediare” (il messaggio implicito è che la scelta fatta è corretta, occorre solo avere pazienza), piuttosto di chi li avvisa che forse è meglio alleggerire, o chiudere completamente la posizione. Abbiamo spesso un rifiuto inconscio verso chi dice cose spiacevoli, ed e’ questa un’ altra distorsione studiata dalla finanza comportamentale.
Se si compie una ricerca approfondita sull’argomento, pero’ si trova che nessun esperto e nessun manuale sostiene che si debba tener conto del prezzo d’acquisto per decidere se vendere o meno un titolo. Per valutare che cosa fare di titoli che valgono attualmente 2 euro non conta nulla quanto siano costati. Non cambia nulla che li abbiamo pagati 3 oppure 10 euro.
“Perdo così tanto che non conviene vendere: meglio aspettare”. Questa è una considerazione diffusa, spesso avallata da consigli di supposti esperti, bancari o giornalisti.
Al contrario, se posso ottenere di più reinvestendo diversamente la cifra che ricavo, mi converrà vendere l’obbligazione (o l’azione o il fondo), sia che stia guadagnando, sia che stia perdendo. Altrimenti mi converrà tenerla, sempre indipendentemente dal fatto di essere in guadagno o in perdita…. Logicamente vale anche l’inverso: converrà, comunque, tenere in portafoglio titoli con buone prospettive, che siano stati pagati più o meno di quanto valgono ora.
Che cosa capita, invece, a chi chiede un parere sull’opportunità o meno di smobilizzare determinati titoli? Il più delle volte si sente a sua volta domandare: “quei titoli, quanto li ha pagati?” o , se l’interlocutore vuole darsi un contegno piu’ professionale, “qual’e’ il valore di carico ?”, e poi consigliare tendenzialmente di tenerli, se “è in perdita”, e viceversa di venderli, se “in guadagno”, adducendo a volte la fantasiosa argomentazione che la perdita sarebbe “virtuale” sino al realizzo della stessa! Come dire, hai una utilitaria finita sotto un tir, ma finche’ non la vendi puoi pensare che valga quanto prima dell’incidente…!
Nella vita di tutti i giorni, difficilmente ognuno di noi utilizza questo criterio del “prezzo di carico” per decidere in merito a un investimento che ha fatto. Pensiamo per esempio alla decisione di vendere un quadro.
Se qualcuno di noi dovesse decidere di vendere un quadro acquistato qualche anno fa non si chiederebbe se il prezzo offerto dal compratore è più alto o più basso di quello di acquisto. Se noi volessimo vendere un quadro ci chiederemmo se il prezzo che ci propongono riflette il valore di mercato. E lo faremmo anche se ci offrissero un prezzo più basso rispetto a quello che noi abbiamo pagato. Se al potenziale compratore provate a spiegare che volete più soldi poiché quel quadro l’avete pagato di più, questi ne sarebbe certamente sconcertato. Nella vita di tutti i giorni ragioniamo, correttamente, in termini di valore e non di prezzo. Lo stesso dovremmo fare con le azioni. Pensare che un titolo possa salire, solo perché è sceso molto è un ragionamento che può portare ad autentici disastri. Non è assolutamente detto che un titolo sceso molto… non possa perdere ulteriormente. [4]
La difficolta’ maggiore nell’operare sui mercati finanziari consiste nel fatto che sono “controintuitivi”: tendenzialmente, quando un titolo scende non diventa “a buon mercato” ( e quindi da comprare), ma “debole” (e quindi da vendere).
Inoltre, la maggior parte dei risparmiatori ragiona in termini di singoli titoli piuttosto che di asset allocation globale. La vera domanda non è se il prezzo di un titolo si rivedrà, ma se sia più profittevole mantenere il proprio capitale investito sulle società che si hanno in portafoglio o se sia meglio sostituirle con altre o semplicemente venderle e restare liquidi.
Sempre piu’ spesso in questi anni mi e’ capitato di vedere portafogli pieni di “cadaveri”: Seat, Tiscali, PirelliRE, Saras per non parlare di Parmalat, Freedomland o Finmatica…, titoli che si sono letteralmente sbriciolati nel corso del tempo, e in alcuni casi letteralmente spariti. Solo un esempio, Saras, partita da 6 euro, arrivata a perdere il 75% in quattro anni. Tutte societa’ che avevano perso molto (qualcuno diceva che “più di così non potevano scendere”), prima di …continuare a scendere.
Esistono alternative ? Certamente, a patto di essere disciplinati e seguire un metodo. Qual è l’errore che si commette ogni volta che si compra, o si media [5] , o si tiene un titolo perchè il prezzo è basso (cioè perché stiamo perdendo sul titolo)?
L’errore che si commette in questi casi è di non fare un ragionamento approfondito, mettendo in relazione il prezzo del titolo con le prospettive della società. Se le prospettive della società sono cambiate è normale che il prezzo scenda. In realtà è questo che è capitato a molte societa’ della new economy: a un certo punto il mercato, dopo bilanci costantemente in rosso (si pensi al mancato obiettivo del pareggio per Tiscali o ai bilanci disastrosi di Freedomland…), ha capito che le premesse su cui si basavano le quotazioni di queste società erano errate. E quali erano queste premesse? Che Freedomland, inventando il servizio di internet via tv, avrebbe portato il web in ogni famiglia, (societa’ sostanzialmente fallita e imprenditore condannato); che Tiscali avrebbe fatto soldi a palate guadagnando in maniera esponenziale (cosa che non si è verificata, anzi la societa’ è tuttora in perdita). E l’elenco potrebbe continuare a lungo…
Vendere in perdita fa male, come del resto buttare gli alimenti avariati. Ma mangiarli sarebbe peggio. Molti investitori si comportano con i propri investimenti come lo struzzo, che mette la testa sotto la sabbia per non affrontare il pericolo. Il problema non è certo quello di detenere titoli in perdita, ma di valutare se le scelte compiute sono coerenti e corrette. Compra e tieni. Buy and Hold per molti diventa Buy and Pray. Compra e spera. Fino alla primavera del 2000, il continuo rafforzamento del mercato toro durato addirittura 18 anni, con solo alcune brevi interruzioni, era un costante monito che ogni vendita sarebbe stato un errore. Per 18 anni il trend e’ stato rialzista e comprare durante le flessioni vincente.
La vendita di un titolo invece è un azione più difficile dal punto di vista psicologico rispetto all’acquisto. Spesso se si sta guadagnando, la paura di perdere ulteriori guadagni non permette di essere abbastanza lucidi nella decisione di chiudere l’operazione, esattamente come la reticenza ad ammettere lo sbaglio (nel caso di perdita) non aiuta a chiudere l’operazione e a spostarsi su altri investimenti. Per acquistare e vendere con successo quindi, diventa importante mantenere una forte disciplina.
Avere disciplina vuol dire anche accettare le perdite, che inevitabilmente avvengono durante la propria attività di trading, come errori vengono fatti in tutte le attivita’ umane. Questo implica soprattutto accettare il fatto di avere sbagliato, chiudendo l’operazione e andando avanti. Chiunque operi in borsa infatti commette errori. La differenza sta nel fatto che l’investitore di successo opera con una disciplina ferrea che e che gli permette di riconoscere e limitare le perdite. L’ obiettivo non puo’ essere azzeccare tutte le operazioni: al limite le operazioni in profitto possono essere una minoranza, per esempio il 40%, se in quelle operazioni guadagnate il 10% e nelle restanti perdete il 5%!
E’ per questo che una grande autodisciplina è assolutamente necessaria per mantenere il controllo sulle proprie azioni. Se si acquista un titolo per puntare su un determinato evento e questo non accade, non si può sperare che comunque le cose si metteranno per il meglio. La speranza e’ una cattiva consigliera ed in casi simili solo la disciplina permette di rimediare all’errore. Come dice bene Peter L. Bernstein, :”di tanto in tanto, gli investitori devono aspettarsi di perdere a causa dei rischi che corrono, qualsiasi altra supposizione sarebbe stupida”.
Non si investe per “avere ragione” ma per guadagnare. Anche se, come abbiamo visto, questo puo’ significare, paradossalmente, avere torto la maggior parte delle volte. Oltre alla disciplina quindi occorre una buona dose di flessibilità, che ci consente eventualmente di cambiare le nostre valutazioni. John Maynard Keynes, a chi lo accusava di non essere coerente rispondeva: ”se la realta’ cambia, io cambio opinione. Lei no?”
[1] La perdita lo segno’ in maniera profonda. Il commento, rimasto celebre: “Posso calcolare il movimento dei corpi celesti, ma non la follia della gente”.
[2] Jacob Burak, Ma gli scimpanze’ sognano la pensione?, Mondadori, 2009.
[3] Beppe Scienza, nel “Risparmio tradito”, si sofferma sulla questione.
[4] Un titolo che ha perso il 75 % (vedi i bancari durante la crisi 2008/09) e’ un titolo che prima ha perso il 50% e poi… si e’ ulteriormente dimezzato!
[5] Mediare al ribasso poi e’ particolarmente pericoloso perche’ produce la conseguenza di avere quantita’ crescenti di titoli evidentemente invisi al mercato. Inoltre avere forti minusvalenze su un titolo comporta anche il “rischio OPA”, vale a dire l’eventualita’ di vedersi “delistare” il titolo ad un prezzo maggiore di quello corrente, ma inferiore a quello di carico. Esempio IW Bank collocata nel 2007 a 4,6 euro e “opata” dopo 4 anni a circa 2 !.